Non è il solito post.
Ieri sono andata a prendere una persona
all’ospedale.
Fa sempre effetto entrare in un ospedale. Io sono
sempre andata in ospedale che quella in estremo bisogno ero io. O io. O uno dei
miei piccoli.
Per una volta, finalmente, non ero il paziente.
Ero entrata infatti abbastanza indifferente. Eppure guardando i pazienti uscire,
provavo una sensazione strana. Ma è strana Giulia, mi sono detta, perché non
hai bisogno tu, perché sei lì di passaggio, perché non ti metti nei loro panni.
Non riesci a capire il loro disagio. Quando mi sono ricordata delle mie disavventure,
allora ho iniziato a capire. E dopotutto non era poi così strano e fastidioso.
Anzi, era molto familiare.
Entrando attraverso la porta girevole
dell’ospedale, mi sono trovata davanti un vecchietto seduto su una carrozzella.
Era lì subito davanti. In prima fila, si sarebbe detto. Appena l’ho visto mi ha
travolto per la tenerezza che personificava. Da solo. Seduto. Ad aspettare
qualcuno. L’ho salutato. Lui mi ha risposto ma poi è tornato a fissare la
porta. “Chissà da quanto tempo è qui ad aspettare” ho pensato.
Poi mi sono spostata e mi sono seduta su una
poltroncina in attesa.
Lo osservavo da lontano e la sua vista mi
riempiva di tristezza.
Ma come mai è qui da solo quest’uomo? Cos’ha
avuto? Non c’è nessuno con lui? Qualcuno che lo viene a prendere? Ma chi lo
viene a prendere?
Mentre aspettiamo, uno non sa mai cosa fare. E
allora tiriamo in lungo.
Io sono lì, guardo il cellulare. Scrivo un
messaggio. Metto via le chiavi. Mi guardo in giro. Niente. Non succede niente.
Nessuno compare oltre la porta e nessuno viene a prendere il vecchietto. Frugo
nella borsa. Trovo qualche scontrino. Lo butto via. Riguardo il cellulare.
Niente. Che palle. Che palle aspettare oh.
In inglese aspettare si dice wait (per chi non sa come si pronuncia, dite
“ueit”). Aspettare. Tutti aspettano. Che lo vogliamo o no. E’ una condizione
normale. Ma per noi, normale, non lo è. Aspettare è sfiancante. Se la pagina di
internet ci mette un secondo in più di quello che riusciamo a sopportare per
caricare, noi chiudiamo subito la pagina. Se tuo figlio ci mette un secondo in più
a capire quale pezzo di animale bisogna mettere, tu non ce la fai ad aspettare,
non rispetti la sua attesa e allora gli dici: qui! Va qui! Mettilo qui!
E io sono pure la madre…
Desideriamo così tanto porca miseria da questa
vita, dalle persone, dagli amici; vogliamo così tanto vacca boia ma ardiamo così
tanto per qualcosa che è talmente forte che non lo sopportiamo e allora siamo a
disagio. Io mollo prima. Naaa lascia perdere. Tu vuoi troppo dalla vita bella
mia. Già… per questo mi sento sempre nei casini.
Però il wait in inglese, nella maggior parte dei casi, regge una preposizione. Il for, che signica per. Quindi ‘aspettare’ implica sempre qualche cosa, o qualcuno. To wait for something/to wait for someone. In realtà tutto aspetta. Se guardi le ciabatte, loro aspettano di essere messe. Il gioco aspetta di essere ritirato. Il figlio aspetta di essere preso in braccio, il naso gocciolante aspetta di essere pulito. I miei capelli, di essere tagliati. Sembro McGeyver castano.
Mentre guardo quell’uomo che aspetta però, mi
intristisco. E’ ancora lì da solo. In molti arrivano, gli passano di fianco ma
nessuno si ferma. Nessuno è lì per lui. Mi prende una malinconia da panico.
Eppure lui fissa fermo la porta. Allora significa
qualcuno deve arrivare. Un pensiero
mi fulmina. E mi lascia impietrita, lì seduta sulla mia poltroncina. “Io sono
come quest’uomo”. Gulp. Una paralitica. Una poveretta. Eppure aspetto. Aspetto
che qualcuno entri, che qualcuno arrivi lì per me, che mi saluti, che mi
abbracci, che mi venga a prendere, che mi tiri fuori da sto casino, che mi
faccia alzare! Che mi voglia bene porca l’oca, che mi porti a casa sua e metta
su una pentola d’acqua per farmi la pastasciutta!
Questo magro vecchietto aspettava e nessuno
arrivava.
Mi accorgo che sono già commossa per
quest’uomo che neanche conosco. Non posso lasciarlo lì cosi, da solo. Decido di
andare da lui. Già ma cosa gli dico? Boh. Vediamo. Intanto vado.
Mi alzo, a passi un po’ incerti, mi avvicino a
lui, guardo la porta. Non arriva nessuno. Mi giro verso di lui e lui non mi
guarda. Mi rigiro verso la porta ma nessuno entra e così vado io da lui e gli
sorrido. “Salve”
“Salve”.
“come sta?”
“eh.. insomma”. Giulia cacchio sta per uscire dall’ospedale, come cacchio sta secondo
te?!?!? Si va be’ ma io che ne so!!! Inadeguatezza al cento per cento.
“E’ stato in ospedale per tanto tempo?”.
“No. Solo da questa mattina. Ma sono stato a
digiuno tutto il giorno. Ho fame”.
“Le vado a comprare qualcosa da mangiare!!
Vado io!!”
“No no grazie. Guardi: mi sono comprato un
panino ma aspetto di mangiarlo a casa”.
“Sta aspettando qualcuno?”
“Si. Sto aspettando una persona”.
“E’ qualcuno della sua famiglia?”
“no.”
“Ha i suoi genitori qui a Chicago?”
“no”
“neanche io”.
“Ah. Sa, però … io sono stato adottato. E
adesso i miei genitori adottivi non ci sono più”.
Mi intristisco come non mai. “Mi dispiace
molto.”
Lui mi fa un sorriso, un po’ amaro ma non
cattivo. Era benevolo. In quel momento noto che ha i buchi nelle orecchie. Wow!
Questo da giovane aveva gli orecchini. Che tipo. Ha due grandi occhi azzurri
che non scherzano. Porta un cappellino nero sulla testa. E’ magro. Magrissimo. Porta sul mignolo della mano sinistra
un anello d’oro con due diamanti triangolari. Uno verde e uno bianco.
“Che bell’anello” gli dico.
“Ah si! Questo. L’ho preso in Colombia.”
“Ah bello! Ha viaggiato tanto?”
“No, non tanto. Solo Paraguay, Puerto Rico,
Colombia e Argentina”.
“Alla faccia! E non è tanto questo?”
Si mette a ridere e mi dice: “Si, beh… in
effetti…”
Poi gli chiedo dove abita ma no sapevo dove si
trovasse di preciso. Poi, mentre gli sto per fare un’altra domanda, vedo
arrivare verso di me la persona che stavo aspettando e che dovevo portare a casa.
Cacchio devo andare.
Lo saluto e gli dico:
“Guardi, mi scusi, ma devo andare. Mi
dispiace. Ma devo andare”.
“Non si preoccupi. E’ arrivata anche la
macchina che mi deve portare a casa”.
Ah…
Mi giro verso l’uscita e vedo una macchina
bianca con sopra un ragazzo che guidava. Non era nessuno. Era semplicemente uno
mandato dall’ospedale. Mi si stringe il cuore. Avrei desiderato di più per lui.
Mentre esco, gli dico col cuore in mano: Arrivederci. Stia bene.
Mi fa un cenno con la mano ed entra in
macchina.
Il ragazzo che guidava la macchina aveva la
radio a tutto volume. Non era molto interessato al suo nuovo passeggero. L’ha
fatto entrare in macchina e non l’ha neanche guardato in faccia.
Il pulmino parte e se ne va. E io scoppio a
piangere.
Piango per una persona che non ho mai visto
prima. Per una persona che ho conosciuto solo per dieci minuti.
E non gli ho neanche chiesto come si chiamava.
Il suo nome. Non lo so. Ero troppo scossa dalla sua storia. Era la domanda che
volevo fargli prima che se ne andasse via.
Ho iniziato a chiedermi perché a questo mondo
una persona debba avere una vita così difficile, essere adottato, ritrovarsi da
solo, da solo perfino in un ospedale. Con nessuno che ti viene a prendere. E io
che mi lamentavo se i miei genitori arrivavano due minuti e mezzo in ritardo a
prendermi in stazione.
Torno a casa pensando: sono troppo sensibile.
E’ che io provo sempre una grande commozione di
fronte a tanta umanità, di fronte alle storie così crudelmente vere perché
spero sempre nel riscatto. Spero che ci sia un riscatto anche per loro. Spero,
anche quando la speranza non c’è, che qualcosa di buono possa succedere e
salvarli.
Avrei voluto fare di più e invece mi sono
ritrovata incapace, una buona a nulla. Magari aveva solo bisogno di qualcuno
che avesse un’attenzione su di lui, uno sguardo su di lui. Ho scritto al mio
amico Zino perché non sapevo cosa fare, cosa pensare, non sapevo perché mi ero
commossa per questo uomo. E lui mi ha chiamato e mi ha detto: sarebbe bello
poter guardare ogni uomo di questa terra con lo sguardo che hai avuto tu per
quest’uomo. Pieno della passione per l’umano”.
Stica. Io?
Io, nella mia sala d’aspetto, aspetto sempre
che qualcuno venga a dirmi che mi voglia bene, che me lo dimostri, che me lo
dica. Se no, non mi alzo dalla carrozzina per uscire. Io, in fondo, sono come quell’uomo.
oggi nessun commento. solo GRAZIE perchè il modo con cui tu ci hai guardato attraverso questo articolo è pieno della passione per tutto il nostro umano!
RispondiEliminaciao amica
checco
Va bene. Allora Grazie! :)
EliminaDavvero un grazie è l'unico commento che si possa fare.
RispondiEliminaAnna
Grazie a te! Ciao Annina!
EliminaF-Italian
RispondiEliminaEhm....ma hai carenze d'affetto così pronunciate?
Bello l'articolo, ma sembra volesse dire più di quello che hai scritto....
Ciao F-Italian!
EliminaEra un po' che non ti facevi vivo e ho pensato che mi avessi abbandonato! ahah!
Mah... carenze di affetto dici? Chissà!
Ma sai che da quando ho letto questa tua domanda, continuo a pensarci?
Volevo dire di più? Boh.. sai che non lo so... Eheeh!
O forse e' solo che questo vecchietto ha risvegliato in me un voler andare incontro alle persone, aiutarle per come posso (cioè praticamente niente) e aiutarle nei loro bisogni.
E poi volevo anche parlare dell'attesa!
Va be' insomma. Rischio di riscrivere l'articolo.
Ma a te invece cosa ti ha detto?
Ciaoooo
F-Italian
RispondiEliminaAllora.....tanto x cominciare non penso ti abbandonerò mai fintantoché usciranno lettere&parole così....così...da renderci "addicted-to-you"..
Cmq quello che mi ha fatto pensare è stato l'ultimo paragrafo..dove crei la metafora della tua vita...ed è lì che io mi sn chiesto se hai carenze d'affetto...xk "attendi sempre che qualc1...."
PS: io non mi preoccuperei troppo del vecchietto...se aveva buchi da orecchini, beh evidentemente se l'è spassata...se non voleva compagnia per cena, beh, probabilmente ama gustarsi sé stesso...perché porre il tutto in contesto di tristezza e grigiume?
Un abbraccio.
No no infatti. Hai ragione!
EliminaPer il resto... sono senza parole... e non capita spesso! Eheeh! Quindi ci penso e ti riscriverò! ;)
Ciao!!!!!!
Il commento migliore è quello di Checco. davanti a questa storia si può solo dire Grazie.Ma il tuo gesto sarà come una palla di neve che provoca la valanga o un mattone tirato via al muro di Berlino che ne determinerà la caduta. Chi può dirlo? Il "vecchietto" si dimenticherà delle parole dette e sentite ma si ricorderà di questa attenzione ricevuta, dello sguardo ricevuto.Dice Lucia Mondella nei Promessi Sposi, gettandosi ai piedi dell'Innominato: "Dio perdona tante cose per un opera di misericordia!" L'Innominato ci pensa tutta la notte...il resto lo sappiamo!
RispondiEliminaSei proprio mia figlia!!!! Papà Osvaldo